RICORDO DI CHI L'HA CONOSCIUTO   (di  Fiorenzo  Scorticati)


Gli amici e i conoscenti che mi parlano di mio padre, mi restituiscono frammenti di vita dell'uomo e del pittore Scorticati a cui riconosco piena rispondenza. In tali occasioni, mi accorgo che solo l'intimità tra le persone che hanno percorso la vita per lunghi tratti insieme, è preziosa custode degli aspetti che meno appaiono agli occhi degli altri. 


E' per questo che il prof. Raffaele De Grada mi ha affettuosamente sollecitato a contribuire nella ricostruzione del ricordo di Lanfranco come uomo.



Chi l’ha conos
ciuto rammenta la modestia, la mitezza del suo carattere, l'ingenuità e il candore di un bambino mai cresciuto, che si confondevano spesso con una sorta di pigrizia nelle cose del mondo. Rammenta, altresì, il suo rispetto per la vita e la natura in tutte le sue forme, il suo spirito di solidarietà, l'amicizia disinteressata, l'amore per la libertà, il "bello" in generale.

Molti gli sono ancora grati per aver saputo trasferire loro il suo entusiasmo per la pittura e per l'arte. Una giornalista (1) ha scritto di lui: "Amare e capire Scorticati vuol dire amare e capire la vita". Avendo avuto la fortuna di conoscere da vicino diversi suoi amici pittori, molto simili a lui, sono d'accordo. Chiunque ci insegni -con umiltà e il proprio modo di essere- ad amare e a capire l'arte, c'insegna anche a cogliere la vita nei suoi aspetti più naturali e istintivi, aiutandoci, almeno per un attimo, ad allontanarci dall'effimero e dalle apparenze, sempre più preponderanti nel nostro mondo.

Schivo, ipersensibile, apprensivo, mai annoiato, mio padre riversava curiosità e attenzione soprattutto verso quello che lo interessava al punto da isolarsi e raccogliersi in se stesso, con la volontà di "staccare la spina" da argomenti che non "sentiva". Al contrario, quando si parlava d'arte la concentrazione era massima e continua.


In verità il suo spirito non era assente dai temi che toccavano la vita di tutti. Nonostante la sua estraneità all'attività politica e sociale, ha sempre nutrito idee profondamente ispirate ai principi del primo socialismo, condividendo istintivamente e moralmente l'ansia di giustizia sociale dei lavoratori onesti.


Fortunatamente per lui, Nina, mia madre, che ha nutrito gli stessi suoi interessi per l'arte, il gusto del bello e il piacere dell'ospitalità e della compagnia, gli curava le incombenze pratiche, verso le quali egli dimostrava tutto il suo immobilismo e mancanza di iniziativa. Di fronte a un problema attendeva che il tempo lo risolvesse in sua vece: ciò gli lasciava più energie, tranquillità e spazio per la pittura, la più grande passione della sua vita.


Suscitava spesso l'ammirazione e l'ilarità dei presenti con il suo buonumore e autoironia che esprimeva in brevi concise battute, di cui rideva di gusto e spesso fino alle lacrime. Ritrovava così la serenità nel mondo esteriore per avere più spazio nei suoi continui turbamenti d'artista, gli unici che sempre affollavano la sua mente.

Gli piaceva ironizzare sulla sua bassa statura (a scuola lo chiamavano “scricciolo”), che non ha mai sentito come motivo di inferiorità. Racconta il suo cardiologo che un giorno in visita con lui a Leningrado alla residenza degli zar, la guida spiegò loro che la porta d’accesso allo studio dello zar era stata costruita volutamente molto bassa per costringere chi entrava ad inchinarglisi davanti. Lanfranco osservò con semplicità: “Io non mi sarei dovuto inchinare davanti alla potenza dello zar!”.


Il suo linguaggio semplice ed essenziale contrastava con le sue ricche conoscenze e competenze artistiche che non ha mai cercato né pensato di valorizzare. Metteva sempre a disposizione di chiunque, senza alcun compenso, la sua capacità di attribuire l'origine, la scuola o l'autore a dipinti e opere d'arte.

Aveva difficoltà a descrivere con le parole o con uno scritto il carattere delle persone che, con tanta intuizione psicologica, egli sapeva invece trasferire efficacemente nei ritratti eseguiti dal vero. Con  la pittura riusciva a tradurre le sue emozioni e smorzava così il suo tormento interiore di esprimersi come desiderava.


Ricordo che mi portava, tenendomi per mano, nei suoi giri quotidiani nelle gallerie e antiquari in centro a Milano o nello studio dei suoi amici; mi risuonano tuttora nelle orecchie le animate discussioni e le risate con gli altri artisti, mentre sotto i tavoli del "Gatto Nero" cercavo questo "famoso" micio. Lungo il percorso facevamo sempre delle deviazioni per ammirare in qualche palazzo o chiesa un'opera particolare: con trasporto mi parlava di luci e ombre stupefacenti. In quelle buie cappelle vedevo allora molte ombre. Solo a distanza di anni ho cominciato a "capire" anche le "luci".

L'odore dei colori e delle tele mi riporta al suo studio dove lavorava, alzandosi presto la mattina e andandosi a coricare molto tardi, addormentandosi il più delle volte con la luce accesa e sempre con un libro, una carta geografica, una fotografia o un disegno in mano.


La sua passione per la grafica, le ceramiche, la scultura, gli oggetti antichi, un vecchio gioco, le sue frequenti presenze ad aste e mercatini, erano le sue più amate distrazioni dal mondo della pittura. Apprezzava anche la musica; in particolare era affezionato ai suoi violini che prendeva in mano quasi ogni giorno per suonare brevemente vecchi motivi, alcuni composti da giovane per puro divertimento.

La casa studio di via Montebello, anni ‘70


Amante, da buon emiliano, della fragrante cucina casereccia, mangiava molto lentamente, assaporando con piacere ogni boccone e lasciando alla fine quello migliore. Allo stesso modo lo vedevo osservare, per  lunghissimo tempo, le opere di artisti che destavano il suo interesse, per gustarne ogni particolare, prima di darne un giudizio, sempre limitato a pochissime semplici parole.

Pur non sottovalutando l'aspetto esteriore del vestire, non dava alcuna importanza alla moda, una sorta di volontà di eludere il transitorio. Che fastidio gli davano la cravatta e i colletti rigidi! Con riservatezza e discrezione partecipava alla mondanità e alla ufficialità del mondo dell'arte.


Come altri suoi amici pittori, viveva in modo essenziale. Avendo conosciuto le dure condizioni di vita dei contadini della sua terra e le difficoltà del periodo bellico, è sempre stato l'antitesi del consumismo: recuperava vecchi chiodi, vecchie tele, riutilizzava qualunque supporto (carta, tela, cartone…) per disegnare o dipingerci sopra, anche se il tempo delle restrizioni era ormai passato.

Non dava importanza al denaro; per lui il valore di un'opera d'arte consisteva solo nella sua bellezza artistica.  Il restauro di dipinti antichi, grazie alla sua abilità, gli permetteva di integrare i guadagni, impegnandolo, a sua discrezione, per periodi relativamente brevi e lasciandogli la libertà di dedicarsi alla pittura ogniqualvolta lo desiderasse.

Nel lavoro ha sempre rifiutato qualsiasi vincolo di subordinazione, per non trascurare la pittura, anche quando aveva lo stomaco vuoto, oppure per non essere costretto a dipingere soggetti non sentiti, con modalità e tempi imposti da qualche mercante.


Sovente ha anche manifestato forte insofferenza ai vincoli che gli creava la famiglia, le cui responsabilità, che non ha mai eluso, gli impedivano di dedicarsi completamente alla sua arte. Come molti altri artisti difendeva, con egoismo, il suo mondo e i suoi interessi artistici. Ciò non di rado era causa di conflittualità con mia madre, ma bastava l'arrivo imprevisto di qualcuno a fugare il "temporale".

Ricordo che anche al piccolo Fiorenzino, nonostante le reiterate promesse, dimenticava sempre di portare le figurine; al contrario, rincasava con libri usati, di arte, musica o viaggi, con stampe, riviste, cartoline…meticolosamente cercati sulle bancarelle, in cui frugava con instancabile energia.

Più che marito e padre si è sempre sentito "figlio", timido e impacciato nella vita pratica, sicuro e disinvolto nella sua attività d’artista. Un suo tema ricorrente è la maternità, che può evocare questo suo sentimento filiale.


Il suo pensiero spesso si distraeva completamente dal presente, anche in compagnia di altri, per pensare a dettagli minimi e abbandonarsi ad associazioni di idee che lo riportavano a un tempo passato. Difficilmente obliava certi fatti che gli avevano creato un particolare disagio; in particolare, non ha mai saputo dimenticare il furto di alcuni quadretti con le nuvole -dipinte in diversi momenti- simbolicamente evocatrici del suo modo di voler vivere un po' “tra le sue nuvole”.

Teneva una sorta di diario minimo.  Molte volte annotava i fatti dietro i disegni e i quadri, cui apponeva sempre una data completa di giorno, mese, anno e, a volte, anche l’ora.


Raccoglieva di tutto, in modo particolare le piccole cose che lo avevano affascinato oppure  gli facevano ricordare il tempo trascorso, che per lui non scorreva mai. Mi sovviene al proposito questo episodio. Nei primi anni Novanta, visitando il cugino scultore, Galileo Scorticati a Reggio Emilia,  dopo oltre un decennio che non lo vedeva, alla domanda “chi è”, risponde al citofono con la massima naturalezza in dialetto reggiano: “A son' mè..!”.

Il ritorno al passato gli ha riempito il tempo e il pensiero durante i lunghi anni di assoluta immobilità sulla carrozzina (1996-'99): amava ripensare alle sue corse in bicicletta, alle nuotate nei fiumi, alle prime visite a chiese e musei…, come in un sogno magico. Questo gli ha reso forse più sopportabile la pena più grave: l’impossibilità di muoversi, di vedere nuovi soggetti e di dipingere. Anche il ricordo dei molteplici viaggi intrapresi gli ha tenuto occupata la mente.

Che tempi quando bastava la telefonata di un amico per  partire verso luoghi da dipingere! I suoi bagagli sempre pronti erano cavalletto, tavolozza e tele; in una piccolissima borsa metteva tutto il resto. Nei suoi viaggi, la cassetta di colori e la scatolina degli acquerelli erano il suo taccuino d’appunti.


Fin da giovanissimo amava vedere dal vivo, nei musei, le opere dei grandi maestri. Instancabile si metteva in fila molto prima dell’apertura e usciva solo dopo la chiusura: per non perdere neanche un attimo si dimenticava spesso anche di mangiare.  Più volte, persone che lo accompagnavano, anche molto più giovani, mi hanno riferito di avere avuto notevoli difficoltà a competere con la sua resistenza fisica, il suo "passo svelto".

Aveva un sogno ricorrente: gli sarebbe piaciuto vivere ai tempi di Raffaello, per vedere all'opera i grandi maestri.

Provava un grande rispetto per tutti coloro che avevano saputo insegnargli qualcosa; ricordava persino con affetto le dolorose bacchettate sulle dita del maestro delle elementari. Ma il suo maestro più ammirato è stato Ottorino Davoli, come artista e come uomo.


Anche se osservava e studiava a lungo e con la massima attenzione le opere degli altri, era autonomo nelle sue, in quanto dipingeva esclusivamente dal vero: la sua grande ispiratrice è sempre stata la natura in tutte le sue manifestazioni.

Si compiaceva di aver studiato a lungo l’anatomia, copiando scheletri, muscoli “scorticati” e  particolari anatomici. A Milano, una tappa d’obbligo per tutti gli amici, che accompagnava a visitare la città, era, nel Duomo,  la statua di “S. Bartolomeo scorticato”, che considerava un capolavoro di conoscenza anatomica.

Nei suoi nudi, il suo pudore e i suoi godimenti si sublimavano nell’estasi del pittore. Dopo la figura, i soggetti preferiti erano i paesaggi, le albe e i tramonti, gli animali, i fiori, le nature morte. Non era solito ripetere i soggetti già dipinti.


I quadri erano per lui "i suoi bambini", che nascondeva in certi casi scrupolosamente agli occhi di possibili acquirenti (conosceva il suo limite di non saper quasi mai dire di no a chi gli chiedeva qualcosa) e mostrava solo ad alcuni amici più intimi, per non sentirseli richiedere e non doversene separare. Ciononostante, con grande disponibilità e piacere, illustrava in dettaglio le proprie opere alle persone  sinceramente interessate all'arte, cui spesso donava un suo disegno o una incisione.

"Non sapevo tra due quale scegliere; Lanfranco, che aveva seguito le mie emozioni, decise di donarmeli entrambi. Mi vergognai ed ero felice" così racconta il caro amico Pino.


La sua tavolozza era molto semplice: usava in generale meno di una decina di colori -moltissimo bianco di titanio, e poi giallo cromo chiaro e scuro, terra di Siena naturale e bruciata, rosso cadmio, verde smeraldo, verde permanente, blu oltremare, pochissimo nero, molto spesso mancante- che disponeva a semicerchio sulla tavolozza partendo dal bianco.

All'aperto, dopo una lunga ricerca, incurante del freddo d’inverno o del sole estivo, una volta trovato il soggetto lo osservava a lungo, orientando il cavalletto.  Poi cominciava solerte a tracciare sulla tela bianca, preparata con cura nelle sere precedenti, una serie di linee e piccole pennellate, e copriva la tela con sfondi di colore diversi a seconda delle zone. Senza un ordine definito, con rapidità aggiungeva contorni e particolari su tutta la tela e il quadro cresceva in fretta.

Prendeva veloce e con moderazione i colori dalla tavolozza, li appoggiava al suo centro dove li mescolava un attimo oppure li portava direttamente sulla tela, ruotando il pennello, o la spatola, alla ricerca del colore che voleva mettere in evidenza. L’importante per lui era riuscire a co
gliere la prima impressione: quella luce, quell’istante, quell’espressione del volto e questo gli riusciva grazie alla sveltezza con cui dipingeva.

Prediligeva i piccoli e medi formati, vuoi per la facilità di poterli trasportare (non avendo l'auto viaggiava coi mezzi pubblici), vuoi per il minore tempo necessario a “riempire” il quadro.


Era sempre incurante della piccola folla che gli si raccoglieva intorno quando dipingeva all’aperto.  Solo quando aveva finito di dipingere rispondeva alle domande che gli rivolgevano.  Per contro, come ricordano diversi suoi amici-allievi, la visita di un uccellino lo distoglieva completamente dal suo lavoro finché gli rimaneva vicino.


"L'importante nell'arte", come ripeteva spesso, "non è rendere il vero, ma il sentimento del vero".


Anche successivamente all'ictus subìto nell'84, non si è lasciato andare; con l'amorevole sostegno della sua Nina, ha dimostrato la sua fortissima volontà di riprendersi e di continuare a dipingere (con la stessa caparbietà di tutta la sua vita): in maniera diversa, libero da schemi, creando nuove forme, colori e intensi contrasti.


Pur non essendo praticante, osava sperare in un al di là dove avrebbe potuto continuare a dipingere con gli amici pittori.



  1. (1)Una giornalista: Clara Mariani, Lanfranco Scorticati, in “Lo Zefiro”, Lug.1978.


Il presente Ricordo di chi l’ha conosciuto è tratto dal libro:

Raffaele De Grada, Maurizio Festanti, Beatrice Menozzi, Fiorenzo Scorticati, Arte Contemporanea a Reggio Emilia, Lanfranco Scorticati, il sentimento del vero, Reggio Emilia, Musei Civici, 2002”.

 

RICORDO

Lanfranco Scorticati  pittore